Come è noto, le nostre strutture sanitarie pubbliche e private soffrono da tempo di una costante carenza di personale infermieristico, in quanto l’offerta “interna” del nostro mercato del lavoro non risulta più, da tempo, sufficiente a soddisfare il fabbisogno.
Per questo motivo la legge n°189/02 (c.d. “legge Bossi-Fini”) ha modificato il Testo Unico delle leggi sull’immigrazione, aggiungendo tale categoria di lavoratori alle diverse tipologie di ingresso per lavoro indicate all’art.27 del T.U., che hanno quale comune denominatore di non essere sottoposte alla regolamentazione dei decreti sui flussi migratori; in altre parole, gli infermieri professionali da assumere presso strutture sanitarie pubbliche e private sono al di fuori del sistema delle quote e quindi non vi sono limiti numerici e non bisogna attendere la pubblicazione dei relativi decreti per presentare le domande di autorizzazione all’assunzione presso le direzioni provinciali del lavoro.
Un’altra caratteristica di tali tipologie di ingresso per lavoro è che il permesso di soggiorno successivamente rilasciato vale solo per lo specifico contratto di lavoro che ha dato luogo all’autorizzazione all’ingresso e non consente quindi di cambiare datore di lavoro, la qual cosa potrebbe creare –come è già capitato— le condizioni favorevoli per forme di ricatto o di abuso; inoltre, anche se al riguardo si assiste ad una prassi disomogenea dei diversi uffici, l’autorizzazione al soggiorno avrebbe una validità non superiore a due anni (ciò è genericamente previsto dall’art.40 del regolamento di attuazione D.P.R. 394/99 e vedremo se il nuovo regolamento in corso di emanazione stabilirà condizioni diverse) e quindi alla scadenza la richiesta di proroga dell’autorizzazione comporterebbe una nuova procedura e la necessità di temporaneo rientro in patria dei lavoratori, i quali, muniti di nuova autorizzazione, dovrebbero chiedere alla competente rappresentanza consolare italiana un nuovo visto di ingresso.
Dalle caratteristiche sopraindicate il Ministero della Sanità ha ricavato in via interpretativa la convinzione che i relativi contratti di lavoro possano essere stipulati solo in regime di diritto privato anche nel caso di assunzione presso strutture pubbliche (si veda la circolare 12.4.2000), il che vale a dire che gli infermieri extracomunitari non potrebbero mai far parte a tutti gli effetti del pubblico impiego e, comunque, sarebbero condannati ad un rapporto di lavoro perennemente precario, pure a fronte di un fabbisogno stabile; ciò nonostante l’art.2, comma 2, del T.U. (come hanno affermato due sentenze, rispettivamente del T.A.R. Liguria e della Corte d’Appello di Firenze) riconosca il diritto degli stranieri di accedere anche al pubblico impiego, per lo meno in relazione agli impieghi per i quali tale diritto viene riconosciuto ai cittadini comunitari.
La circolare del Ministero del Lavoro n. 52 del 25.10.02 ha poi precisato che la richiesta di autorizzazione all’assunzione dall’estero di infermieri extracomunitari potrà essere presentata anche da società di lavoro interinale, mentre non potrebbe essere parimenti proposta da cooperative sociali, a meno che non gestiscano direttamente la struttura sanitaria ove saranno occupati gli interessati (tuttavia, l’abrogazione del divieto di intermediazione di manodopera in favore degli enti pubblici, recentemente disposta dalla legge 267/03, cosiddetta “Legge Biagi”, dovrebbe consentire di ritenere superato tale limite).
In ogni caso, presupposto necessario perché sia autorizzato l’ingresso dall’estero e, comunque, per il lecito esercizio in Italia della professione di infermiere professionale è il riconoscimento del relativo titolo di studio da parte del Ministero della Sanità e la successiva iscrizione presso l’apposito Albo professionale; in mancanza di ciò sia i diretti interessati che i loro datori di lavoro commetterebbero il reato di esercizio abusivo della professione (art.348 codice penale).
La procedura di riconoscimento del titolo (analiticamente descritta nella circolare 12 aprile 2000 del Ministero della Sanità) deve essere attivata dallo stesso datore di lavoro interessato all’assunzione dall’estero o dal diretto interessato nel caso abbia già un regolare soggiorno in Italia e, sostanzialmente, si basa sulla valutazione del curriculum di studi: non è quindi sufficiente il semplice diploma in quanto oltre ad esso dovrà essere tradotto e legalizzato presso la competente rappresentanza consolare italiana anche l’intero programma di studi, con indicazione del monteore di ciascuna materia, per ogni anno di corso.
La domanda va indirizzata al Ministero della Sanità-Dipartimento Professioni Sanitarie, Risorse Umane e Tecnologiche-Ufficio II°, a Roma.
Allo scopo di semplificare la procedura per il riconoscimento dei titoli
(che è identica anche per tutte le altre professioni c.d.
“parasanitarie”, quali logopedista, odontotecnico, ostetrico, ottico, tecnico di radiologia, fisioterapista, ecc.)
e sulla base di quanto previsto dal D.L. 402/01 convertito in legge
dall’art.1 della legge n°1 dell’8 gennaio 2002, il Decreto 18.6.02 del
Ministero della Sanità ha demandato l’istruttoria delle pratiche
direttamente agli uffici di alcune regioni che hanno sinora dato la
disponibilità al riguardo, quindi le domande potranno essere presentate
ai competenti uffici delle regioni Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Umbria, Valle d’Aosta, Veneto e delle province autonome di Trento e Bolzano.
Infine, a seguito del riconoscimento del titolo di studio e dell’ingresso in Italia, con relativo rilascio del permesso di soggiorno, il percorso si conclude con l’iscrizione all’Albo professionale, previa verifica, a cura del competente ordine professionale, della conoscenza della lingua italiana e delle speciali disposizioni che regolano l’esercizio professionale in Italia.